Secondo appuntamento con i Racconti d’Estate Ghiott. Sollazzatevi e viaggiate stando fermi con una lettura!

Appena si lascia Ardesilla e i suoi giganteschi acquedotti, si viaggia per due giorni verso sud, attraverso un’interminabile serie di villaggi e di sterminati campi coltivati a spighe dorate, per giungere infine alla città di Mandorloz, che appare ricca di palazzi, giardini lussureggianti, magnifica. Qui ferve una gran quantità di commerci, di carovane che vanno e vengono, e vi si incontrano i popoli più diversi: dai mori di Mars-Alun vestiti di sete rosse e blu, ai fabbri di Helle, ai mercanti della città nomade di Gorra, fino ai pittori di lume della lontana Sparvinia. Il motivo di tanta animazione è racchiuso nel piccolo frutto di un bellissimo albero che qui cresce spontaneo, ricoprendo le vaste pianure che degradano a est di Mandorloz, e che è venerato come sacro poiché il suo fiorire annuncia la fine dell’inverno, ma in special modo perché i suoi frutti sono più preziosi dell’oro, dell’ambra e infin della giada: tali frutti son detti mandorle, e le genti di questa città se ne cibano e ne fanno commercio da tempo immemore.

Il frutto della mandorla è racchiuso in un duro involucro che par fatto del legno istesso degli alberi che lo generano, avvolto poi in un secondo velo che lo protegge dagli sguardi indiscreti. Liberare l’intimo frutto dagli strati che che lo ricoprono è compito peculiare di un’unica famiglia di Mandorloz, di altissimo lignaggio: i Matzo-Lai. Costoro sono i soli custodi di un’antica sapienza e di uno straordinario e misteriosissimo arnese che i pochi che hanno visto dicono si impugni come una clava, capace di spaccare il duro guscio della mandorla senza rovinare l’intimo frutto. Ma veniamo al frutto, che alla vista è solido, candido e rugoso, croccante al primo morso, cangiante poi come per incanto in una pappa deliziosamente aromatica. Lascia sempre la bocca desiderosa di averne altri. Squisito. Una volta private dell’involucro dai nobili Matzo-Lai, le mandorle diventano l’oggetto privilegiato degli scambi dei mercanti, per finire sulle mense di re, tiranni, dignitari, principesse, mandarini, badesse e visir, e per coprire di beni e fortuna la bella Mandorloz e i suoi abitanti.

In molti le mangiano in questa guisa, in purezza, ma vi sono certi mercanti di Mandorloz che si sono ingegnati a trasferire il gusto della mandorla in altri cibi, e a trarre cospicuo profitto da questi artefatti gustosissimi che si dice siano molto apprezzati dai popoli sulla costa. Fra questi mercanti d’invenzione v’è un certo Panet che pesta le mandorle in taluni mortai facendone una poltiglia, alla quale aggiunge uno sciroppo dolce, per formare poi certi mattoncini che sembrano fatti apposta per costruire la torre d’avorio di Edra. V’è anche una mercantessa, la moglie di Ammoll, che ha invece ricavato dalle mandorle un latte portentoso, che pare sia davvero buono per tutti gli usi. Lei lo vende come bevanda e come sapone per la pelle, e si dice che la pelle della moglie di Ammoll sia la più morbida di tutta la città. È un mistero se sia perché lo beva o perché ci faccia il bagno. A ogni modo, le qualità del latte di mandorla della mercantessa sono indubitabili; tant’è che taluni popoli, in special modo sulla costa, ci preparano un cibo diaccio conosciuto come granita. Il più stupefacente di tutti è però il mercante Sal-a-Orn, che aggiunge le preziose mandorle a un impasto fatto di farina di grano, uova, zucchero, miele e latte di mucca sbatacchiato, poi infila cotanto impasto in un buco infuocato e ne ricava dei bastoncini croccanti che le genti d’ogni dove mangiano senza posa, quasi più delle mandorle in purezza.

Ma poiché nient’altro ho più da raccontare della città di Mandorloz, qui, io sottoscritto Gastolfo di Ripawick, nell’anno **** il giorno di san Fardino, mi taccio.

 

 

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